LA NOSTRA FERITA ED IL NOSTRO PASSATO DI DOLORE

Scritto da Dario Urzi il 07 dic., 2013, su GOOD LIFE LAB

Siamo (solo) ciò che ricordiamo?

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Ricordare il nostro passato è importante, perché “se non guardiamo e non ricordiamo il nostro passato siamo destinati a ripeterlo”.

Ma se pensiamo di essere “solo” ciò che ricordiamo siamo una ben misera cosa.

Se pensiamo di essere solo ciò che ricordiamo, solo la nostra storia, solo la nostra biografia, ci priviamo della possibilità di scoprire che tra le innumerevoli cose che possiamo essere ne esiste una, straordinariamente preziosa, che può far sbocciare più di ogni altra il nostro fiore interiore, che può portare alla luce in tutto il suo splendore il nostro “dàimon”, la nostra qualità interiore, la nostra essenza, la nostra più nobile e autentica natura.

Portare alla luce il nostro dàimon, far sbocciare il nostro fiore interiore significa effondere ovunque la nostra luce e il nostro profumo, significa “dare amore”.

Partorirai con dolore, disse Dio alla donna nella Genesi… ovvero (mia personale interpretazione)… mentre donerai la vita, il bene più grande che tu possa donare, farai esperienza della vita. Farai esperienza della vita provando dolore, perché devi essere consapevole che la vita è anche dolore, ma al tempo stesso farai esperienza della gioia, della gioia più grande che ti sia dato di provare nel corso della tua terrena esistenza.

Il dolore è un’esperienza di auto-conoscenza, di auto-conoscenza e di auto-coscienza, ovvero di coscienza di noi stessi, della coscienza di esistere. C’è chi dice che il dolore serva proprio a questo, a destarci, ad aprici gli occhi, a darci la sveglia, un forte, violento e brutale impulso in grado di spingerci a vivere in modo più pieno e consapevole la nostra vita. C’è chi dice che l’esperienza del dolore non è sempre indispensabile per farci accedere a questa piena consapevolezza, ma ciò dicendo aggiunge che, per la maggior parte degli uomini, è un passaggio necessario.

Si possono dire tante, tantissime cose sul dolore.

Ma, in pratica, che cosa accade quando proviamo dolore ? Quando proviamo dolore al nostro braccio o alla nostra testa percepiamo immediatamente la presenza del nostro braccio o della nostra testa, la loro presenza e la loro pesantezza. Quando invece stiamo bene non percepiamo affatto questa o quella singola parte del nostro corpo: percepiamo direttamente il mondo come se il nostro corpo fosse trasparente, invisibile, a completa disposizione del nostro essere nel mondo e del nostro vivere nel mondo. Proviamo leggerezza.

Quando stiamo male e il nostro dolore fisico diviene particolarmente intenso la parte dolente del nostro corpo non solo diviene indiscussa protagonista della nostra vita ma si erge davanti a noi come un solido muro che si interpone tra noi e il mondo, un solido e altissimo muro che ci impedisce di vedere l’intero panorama e di vivere pienamente la nostra vita.

Quando infine quel dolore si fa ancora più intenso e persistente diventa la nostra identità: ne parliamo con chiunque, continuamente lo ascoltiamo per vedere se finalmente comincia a placarsi, lo portiamo con noi ovunque nell’affannosa ricerca di una soluzione, di qualcuno che sia in grado di offrirci un rimedio affinché possa quanto prima dissolversi o almeno attenuarsi.

Ma se il dolore persiste si trasforma ben presto in sofferenza: il dolore del corpo diviene sofferenza della mente e dell’anima, una sofferenza custodita e coltivata dai pensieri più cupi e pessimisti che non lasciano scampo, dai pensieri che ci dicono, al di la di qualsiasi ragionevole speranza, che quel dolore non finirà mai: non finirà mai perché dura oramai da troppo tempo, non finirà mai perché non c’è alcun rimedio, non finirà mai perché le abbiamo provate tutte, non finirà mai perché l’abbiamo letto anche su internet e sui più autorevoli testi di medicina, non finirà mai perché ce lo conferma ogni giorno la vita che da sempre è così cattiva con noi, sin dal tempo in cui eravamo bambini.

Ma le cose stanno davvero così ? Davvero non esiste una via d’uscita ? Davvero non esistono altre possibilità ? Davvero la vita, la grande madre che tutto e tutti ha generato, è così cattiva e crudele ? Nei momenti di grande dolore la nostra mente ne è certa e non c’è verso di convincerla che le cose stiano in altro modo.

E se invece la nostra profonda e antica ferita fosse una crepa attraverso cui possiamo lasciar finalmente entrare un po’ di luce per vedere meglio dentro ed una feritoia per guardare meglio fuori, al di la del muro?

Se così fosse scopriremmo qualcosa di molto importante: scopriremmo che quella ferita, quel dolore, quel nostro star male, quella nostra malattia hanno un loro senso, una loro ragion d’essere, una loro utilità, un loro scopo.

Queste parole possono sembrare una provocazione, uno sciocco paradosso. Ma vi assicuro che non le scrivo a caso: faccio il medico da più di trent’anni e mi assumo la piena responsabilità di ciò che dico. Sono convinto che le cose stiano davvero così. Sono convinto che possiamo giungere a scoprire e comprendere “il senso autentico di quel senso”, perché quella ferita che non guarisce mai non è una ferita qualsiasi, non è una ferita senza storia, non è la semplice ferita che si studia sui libri di patologia generale e di patologia medica: quella ferita è la nostra ferita.

Ma allora che cosa possiamo fare ? Possiamo fare la cosa più semplice, quella che non abbiamo mai fatto, l’unica cosa che ci può davvero far accedere alla guarigione. Possiamo guardare la cosa fondamentale, la cosa più importante: “ciò che non abbiamo mai visto prima ma che davanti agli occhi stà”, come diceva Goethe. Possiamo guardare la nostra ferita, che così bene crediamo di conoscere, guardandola finalmente in faccia, e con ciò riuscire a vedere oltre la nostra ferita,  vedere attraverso la nostra ferita quello che non avevamo mai visto prima: vedere finalmente noi, da fuori dentro di noi, e da dentro fuori di noi, al di là del muro…

Un lungo, caldo e sereno abbraccio pre-natalizio a tutti.

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